martedì 1 marzo 2011

Potosi






























Da Sucre prendiamo un bus fino a Potosi, città mineraria vicino al confine con l’Argentina (ci riavviciniamo). Prenotiamo tre notti in un ostello boutique: per 14 euro a persona abbiamo tutti i comfort necessari per prepararci alle notti che ci attenderanno in dormitorio. Pur essendo a 4 stelle ci permette di cucinare anche se, per problemi intestinali che non approfondisco, non potremo sfruttare a pieno quest’opportunità. L’impatto con Potosi è subito molto positivo: a parte il fatto che un tassista ci imbroglia appena arrivati. Dalla stazione ci propone una tariffa di 5 boliviani che, una volta arrivati quasi a destinazione (la strada è bloccata per via di una manifestazione degli universitari) diventano 15: ma la cosa peggiore è che non ha resto quindi ci porta in banca a cambiare i soldi. Davanti alla guardia diciamo che è un imbroglione: lui intasca i soldi e si dilegua, la guardia ride. Vabbè tralasciamo e passiamo alla città. Potosi è la città (può intendersi come tale avendo più di 100 mila abitanti) più alta del mondo: si trova a 4060 metri. L’atmosfera ricorda quella di un paesino italiano, è molto gioviale e le strade sono piene di giovani. Proprio quello che secondo me manca a Sucre. Passeggiando si scorgono bellissimi edifici coloniali e chiese con campanili davvero interessanti dal punto di vista architettonico. L’essenza di questa cittadina è imprescindibilmente legata alla sua storia: Potosi viene fondata dagli spagnoli quando i conquistadores scoprirono la ricchezza mineraria del Cerro Rico, la montagna che sovrasta il territorio. Si calcola che nel periodo della dominazione siano state estratte 40 mila tonnellate di argento. Potosi significa in lingua Quechua ‘esplosione’: la leggenda racconta che la gente del luogo, che per prima realizzò la ricchezza del territorio, sentì un’esplosione che li allertava dal non scavare sottoterra. Era un avviso della Pachamama, la protettrice della Terra tuttora venerata qui, insieme a Gesù Cristo e al Diavolo. Questa coesistenza di diverse religioni si deve alla conquista europea e alla mescolanza di culture. Da Potosi si può prendere parte ad un tour e visitare il Cerro Rico e le mine: è un’esperienza significativa per comprendere le codnizioni lavorative di questo popolo. I minatori oggi sono organizzati in cooperative ma, come ci spiega la guida, si tratta solo di una denominazione di facciata: in realtà esistono soci di livello superiore che guadagnano sulle spalle dei minatori. Questi ultimi lavorano come autonomi: guadagnano in proporzione a quanto producono e devono sostenere da soli le spese per materiali, dinamite etc. Durante la giornata non mangiano e trovano la forza, fisica e mentale, nelle foglie di coca e in una bevanda alcolica (praticamente pari al nostro alcol puro). Per questo ai visitatori viene chiesto di collaborare solidariamente portando oggetti utili durante il tour da donare ai minatori. La nostra visita alle mine coincide con un giorno speciale: è la festa del Tio, ossia il diavolo. Qui la figura del diavolo non ha la stessa accezione che noi gli attribuiamo: fu introdotto dagli spagnoli per intimorire gli schiavi minatori. Inizialmente vennero messi a lavorare nelle mine gli schiavi africani ma, a causa delle difficoltà di adattamento, questi morivano in grandi percentuali: per questo furono inviati nella zona di La Paz a lavorare nei campi di coca. Fu allora che gli spagnoli imposero il lavoro nelle mine ai locali come una sorta di servizio militare. Per evitare che i minatori fuggissero li obbligarono a vivere il periodo di questo servizio sotto terra: sei mesi, un anno, a volte anche di più senza vedere la luce del sole. La statua del diavolo, l’unica raffigurazione religiosa ammessa nella cultura boliviana, venne messa all’entrata delle mine con funzioni intimidatorie anche perché gli spagnoli, temendo il rischio di contagio di malattie, non entravano personalmente nei cunicoli sotterranei. Gradualmente però i minatori cominciarono a sviluppare un sentimento di empatia con el Tio: se il diavolo era un elemento negativo nella religione cristiana in qualche modo era nemico degli spagnoli e quindi loro amico e oltretutto lui condivideva con loro la vita sotterranea. Fu così che iniziarono a venerarlo come il signore delle profondità: nel giorno della sua festa la statua viene adornata con stelle filanti, cosparsa di foglia di coca e bagnata con la birra. Anche Alessandro viene ‘adornato’ dalle donne del posto che dimostrano una grande reverenza verso il genere maschile. Quando ordiniamo delle cose da mangiare o da bere in Bolivia lui spesso viene servito per primo in maniera esplicita. Nel complesso si tratta di una visita molto istruttiva. Il programma è di lasciare Potosi il venerdi per prendere la coincidenza del treno per Villazon e tornare in Argentina: ma in Bolivia i programmi hanno vita breve. Uno sciopero nazionale degli autisti pubblici ci costringe a fermarci un giorno in più. Non solo: dovremo fermarci un giorno e mezzo anche ad Uyuni per aspettare il treno successivo. Già sappiamo che come cittadina Uyuni non ha nulla da offrire ed è alquanto squallida quindi credo proprio che sarà una lunga attesa… Tra le altre cose cambiare il biglietto non è stato facile e siamo dovuti andare direttamente alla stazione perché l’agenzia con cui avevamo prenotato era chiusa con il lucchetto onde evitare reclami o problemi. Alla faccia della professionalità: questi purtroppo sono i motivi per cui la Bolivia resta un Paese vittima della sua arretratezza.